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La Parabola dei Talenti

 Cari fratelli, care sorelle,

 Prima di leggere questo Vangelo, facciamo un attimo di silenzio e concentriamoci; notiamo che questa parabola è l’ultima parabola riportata nel vangelo di san Matteo. Dopo questo, ciò che segue, dal capitolo 26 in poi, è il racconto della passione, morte e risurrezione di Cristo. Possiamo quindi attribuire una certa importanza al fatto che la parabola dei cinque talenti contiene un po’ della “saggezza spirituale finale” che Nostro Signore ha scelto d’impartire ai suoi discepoli.

 Dal Vangelo di Matteo, Capitolo 25, 14-30  

"Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone".Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti".

  

Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato.

  • Chi è l’uomo? Chi sono i servi? Cosa sono i talenti? 

 L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso.

 I servi siamo noi e tutti i discepoli di Gesù Cristo, tutti i cristiani.

Il talento era un’antica moneta romana, di grande valore. Pensiamo che, se sono vere le misure con cui si è giunti a decodificare i valori, un talento doveva corrispondere probabilmente a 33-34 chili d’oro (una enorme, grossissima quantità di denaro!)

Proprio a causa della popolarità di questa parabola, la parola “talento” è diventata sinonimo di dote personale, di qualità proprie che ciascuno è chiamato a far fruttificare. Questo insegnamento di Gesù ha inciso fortemente anche sul piano storico-sociale, promuovendo nelle popolazioni cristiane una mentalità attiva e intraprendente. Ma attenzione a dare una interpretazione di tipo utilitaristico a questa parabola.

In realtà, il testo parla di "un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni" (Mt 25,14). I talenti sono i doni che Gesù affida loro, i doni che Gesù ci affida.

Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: 

  • la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; 
  • la preghiera – il "Padre nostro" – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; 
  • il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; 
  • il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; 
  • il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. 
  • In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi. 

Certamente c’è una chiave di lettura escatologica: dal greco antico, ἔσχατος, éskhatos «ultimo», letteralmente "scienza delle cose ultime", è la riflessione teologica sul destino definitivo e finale delle persone e del creato (la morte, l’aldilà, la fine dei tempi, l’apocalisse, la venuta di Gesù ecc.).

Per il cristiano, la storia non è un perpetuo ricominciare; la storia conosce una progressione segnata dalle visite di Dio, in tempi, giorni, ore e momenti privilegiati. 

È proprio questo che professiamo nel credo liturgico “Salì al cielo, siede alla destra del Padre, di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. Il Signore è venuto, viene continuamente, verrà per giudicare il mondo e salvare i fedeli. Dopo l’ascensione, siamo entrati nell’ultimo ora “Figlioli, è giunta l’ultima ora” (1 Giovanni, 2, 18). Il Regno di Cristo è già presente, Lui è già glorificato, Signore del cielo e della terra. Ma prima dell’ascensione Gesù dice a quelli che erano con lui (Atti 2, 6) che non è ancora giunto il momento della ricostituzione gloriosa del regno attesa da Israele, ha inaugurato il tempo dello Spirito e della testimonianza, un tempo segnato dalla prova del male, in cui il male, ancorché sconfitto definitivamente, ha ancora una certa libertà di azione. Questo tempo di prova, che non risparmia nemmeno la Chiesa, è un tempo di attesa e di vigilanza. Fino alla parusìa, “il giorno della visita”, il “giorno di Dio”, il “giorno del Figlio dell’uomo”, il compimento del giorno di Dio annunciato dai profeti; quest’ultima tappa della storia della salvezza sarà consumata con il ritorno glorioso del giudice supremo. In quel giorno, saranno messi in luce la condotta di ciascuno e il segreto dei cuori. 

Questa parabola ci ammonisce circa la provvisorietà dell’esistenza terrena e ci invita a viverla come un pellegrinaggio, tenendo lo sguardo rivolto alla meta, a quel Dio che ci ha creato e, poiché ci ha fatto per sé (cfr S. Agostino, Conf. 1,1), è il nostro destino ultimo e il senso del nostro vivere. Passaggio obbligato per giungere a tale realtà definitiva è la morte, seguita dal giudizio finale. L’apostolo Paolo ricorda che “il giorno del Signore verrà come un ladro di notte” (1 Ts 5,2), cioè senza preavviso. La consapevolezza del ritorno glorioso del Signore Gesù ci sprona a vivere in un atteggiamento di vigilanza, attendendo la sua manifestazione nella costante memoria della sua prima venuta.

In sostanza, come dice Robert Cheaib commentando questo vangelo, non ci interessa volgere lo sguardo a una vita eterna che non inizi qui ed ora. E, a quanto pare, Gesù è dello stesso parere. La parabola dei talenti non parla del giudizio finale, piuttosto, come cercheremo di capire stasera, del nostro pre-giudizio e della paura che abbiamo in questa vita. Il punto centrale non è “Cristo giudice”, ma “Cristo redentore”, che ci dona le grazie necessarie per giungere alla salvezza e ci mette in guardia da noi stessi che, rifiutando questa grazia, ci giudichiamo da soli.

Dio chiama  ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. 

Nessuno si senta esclusa da questo. 

I “talenti” ci sono, e ci sono per tutti. Non cadiamo nell’errore, sarebbe da stolti, né di pensare che questi doni siano dovuti né di rinunciare ad impiegarli, perché sarebbe un venir meno allo scopo della nostra esistenza. 

Sgombriamo, però, subito il campo da un equivoco. Dio non dà a tutti lo stesso numero di talenti, ma “a ciascuno secondo le proprie capacità”: il numero dei nostri talenti non è un modo di Dio di fare ingiustizia!

Troppe volte paragoniamo la nostra vita a quella degli altri e ci domandiamo perché a quello sì e a noi no. Pensiamo spesso che l’erba del nostro vicino sia sempre più verde, ma in realtà non sappiamo quasi nulla della vita degli altri, di quello che vivono, di quello che soffrono. Giudichiamo dall’esterno e viviamo arrabbiati pensando di essere dei figliastri e noi dei figli. Ci dimentichiamo che Dio dà “secondo le capacità di ciascuno”.

Il punto non è “fare la conta” dei nostri talenti, ma decidere che cosa ne vogliamo fare. Passiamo la vita a osservare ciò che gli altri hanno, ad ammirarli ma anche ad invidiarli, oppure a ragionare con la paura e quasi mai “investiamo” su ciò che siamo e su ciò che abbiamo. La santità non è guadagnare di più, ma avere il coraggio di rischiare ciò che si ha. Se tu rischi ti comporti da figlio, se non rischi tu ragioni da servo che temendo la punizione si paralizza .

È vero che il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale, e arriviamo al punto centrale della parabola: a tutti è data la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! In noi tutti singolarmente!

Questo Vangelo è la storia di questa “fiducia” accordata dal padrone ai servi: il padrone consegna i suoi beni, tutto quello che possiede, ed è un “capitale” enorme. 

Stiamo attenti a non scivolare in un moralismo che richiede di vedere in tutto questo un problema di “dovere” o di “obbligo” per paura della “punizione”. Una vita con la paura della punizione ci trasforma in devoti inutili, ma la santità consiste nel diventare figli di Dio, non nel semplice stare alle regole. Se per paura dell’inferno faccio una vita da santo, allora non ho capito che il bene andava fatto per amore e non paura.

Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).

Non è questa la strada! Qui Gesù ci racconta la strada della fiducia, la strada della “consegna”: il padrone consegna i suoi beni ai suoi servi. Il problema è proprio questo. Questo padrone che è Dio, che ci dà “cose da lavorare”, “cose da impegnare”, “cose da usare”. 

La vita non è la ricerca costante di zone di riposo. Noi, esistenzialmente, stiamo vivendo una degenerazione rispetto all’attività umana, concepiamo la vita come divertimento, desideriamo essere più liberi per dedicarci a quello che ci piace, e, di contro, il lavoro come un impiccio, come un incidente di percorso. Poi, quando qualcuno sta realmente nella condizione della disoccupazione, si rende conto che è esattamente il contrario: l’ozio è una zona di disumanizzazione, mentre il lavoro è molto importante per ognuno di noi. 

Ma al di là del concetto di lavoro, il problema è che oggi noi concepiamo la vita come una noiosa parentesi tra un week end e un altro o tra un lunedì e un altro. Per noi la cosa importante è finire, divertirci, riposarci, passare la vita nell’edonismo, nello svago; mentre ciò che veramente conta nella nostra vita sono i risultati che lasciamo dietro di noi, sono le cose che vediamo, che abbiamo potuto fare. 

Dobbiamo focalizzare che ognuno di noi ha qualche cosa di bello da fare, ed è proprio in quello che si esplicita, ognuno di noi mostra la sua bellezza, la sua importanza. È tanto importante che ognuno di noi si lanci nelle proprie benedizioni, nelle proprie capacità, nelle proprie occasioni e soprattutto nei “beni del padrone” che sono beni, dato che il padrone è Dio, importanti, abbiamo già detto che vi sono compresi beni naturali ma sopratutto beni soprannaturali, doni, sacramenti, Parola di Dio, tante cose che ognuno di noi sa prendere alla propria maniera, come anche tutte le cose della vita ordinaria: è bello vivere! È bello lavorare! È bello usare la propria vita! 

Ma allora, da dove nasce il caso terribile  del terzo servo, quello che non fa proprio niente, che prende e nasconde sotto terra i beni che gli sono stati accordati, il talento che gli era stato dato?

È interessante ascoltare il discorso del servo che si giustifica: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso.  Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra, ecco ciò che è tuo”. Ecco, il servo non si è impossessato dei beni che il Signore gli ha dato e gli dice “Ecco ciò che è tuo”, glielo restituisce. C’è un atto molto importante: impossessarci delle nostre grazie. 

Ognuno di noi ha delle grazie e ne deve prendere possesso! Quelle non ce le impone Dio, Dio non ci impone di sfruttare le occasioni che ci dà, ci dobbiamo entrare noi. 

Da dove parte l’azione “sballata” di questo terzo servo? Dal fatto che pensa male del padrone, ha un pre-giudizio nei confronti del padrone: “So che sei un uomo duro”, e questo lo porta ad avere paura.

Invece, dal racconto leggiamo che non lo è per niente, anzi è un uomo generoso, sarà così generoso con i suoi servi che gli lascerà i suoi beni e il frutto di questi! Però è un uomo che accorda una operazione: chiede di essere corrisposto, ma non è uno che prende quello che non gli spetta, come lo descrive il servo (“Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). È una visione (sbagliata di Dio), come se Dio fosse esigente. 

Quanta gente ha questa idea che la volontà di Dio è dura… ma quando mai! Ma dove sta scritto? È una menzogna, che ci porta ad avere paura, e la paura non viene da Dio e ci porta a fare, a dire ecc., cose sbagliate.

Ci sono molti passi nella Scrittura dove si afferma che l’uomo che teme Dio è da lodare e deve essere riconoscente per il frutto delle sue mani: esiste un collegamento fra il temere Dio, cioè pensare bene di Lui, avere il senso di Lui, avere il senso della Sua preziosità (questo appunto è il “timore di Dio”), e il frutto delle proprie mani: la volontà di Dio non è una trappola, la volontà di Dio è un dono, la volontà di Dio è un’occasione bellissima che noi abbiamo per poter dare frutto, perché prendiamo possesso della fiducia che Dio ci dà, perché noi non viviamo sotto un dio che ci è nemico, sotto un dio esigente, sotto un dio pretenzioso. Dio è generoso! Dio ci dà cosa fare perché ci dà fiducia, ci accorda opere da compiere perché possiamo sperimentarne la generosità.

Ecco, apriamo il cuore a pensare bene di Dio per pensare bene delle nostre occasioni!

Papa Francesco, commentando la parabola dei talenti da Piazza San Pietro nell’Angelus del 16 novembre 2014, ci ha fatto un invito che oggi vorrei rinnovarvi: sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse questo Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, leggesse la parabola e meditasse un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, cosa ne sto facendo? Come faccio che crescano in me e negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”.

Non deludiamo Dio! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! 

La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso. A Lei chiediamo, in questa preghiera, di aiutarci ad essere “servi buoni e fedeli”, per partecipare “alla gioia del nostro Signore”. Amen!

 

 

 La parabola dei talenti

“chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni" (Mt 25,14): 

la storia della fiducia di Dio verso gli uomini

Cari fratelli, care sorelle,

stasera leggeremo e mediteremo insieme la celebre “parabola dei talenti”, dal Vangelo di Matteo, Capitolo 25, 14-30. 

Prima di leggere questo Vangelo, facciamo un attimo di silenzio e concentriamoci; notiamo che questa parabola è l’ultima parabola riportata nel vangelo di san Matteo. Dopo questo, ciò che segue, dal capitolo 26 in poi, è il racconto della passione, morte e risurrezione di Cristo. Possiamo quindi attribuire una certa importanza al fatto che la parabola dei cinque talenti contiene un po’ della “saggezza spirituale finale” che Nostro Signore ha scelto d’impartire ai suoi discepoli.

Invochiamo lo Spirito Santo affinché, meditando la parola di Dio, ci attiri nel cammino della preghiera di Cristo, preghiamo insieme:

« Vieni, Santo Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore ». 

Leggiamo la parabola. È Gesù che parla ai suoi discepoli.

Dal Vangelo di Matteo, Capitolo 25, 14-30 (traduzione nuova CEI - 2008)

14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21"Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23"Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone".24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". 26Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti".

Facciamo un minuto di silenzio, durante il quale ognuno di noi individua una o più parole che l’hanno colpito.

Gesù racconta di tre servi ai quali il padrone, al momento di partire per un lungo viaggio, affida le proprie sostanze. Due di loro si comportano bene, perché fanno fruttare del doppio i beni ricevuti. Il terzo, invece, nasconde il denaro ricevuto in una buca. Tornato a casa, il padrone chiede conto ai servitori di quanto aveva loro affidato e, mentre si compiace dei primi due, rimane deluso del terzo. Quel servo, infatti, che ha tenuto nascosto il talento senza valorizzarlo, ha fatto male i suoi conti: si è comportato come se il suo padrone non dovesse più tornare, come se non ci fosse un giorno in cui gli avrebbe chiesto conto del suo operato.

Chi è l’uomo? Chi sono i servi? Cosa sono i talenti? 

L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso.

I servi siamo noi e tutti i discepoli di Gesù Cristo, tutti i cristiani.

Il talento era un’antica moneta romana, di grande valore. Pensiamo che, se sono vere le misure con cui si è giunti a decodificare i valori, un talento doveva corrispondere probabilmente a 33-34 chili d’oro (una enorme, grossissima quantità di denaro!)

Proprio a causa della popolarità di questa parabola, la parola “talento” è diventata sinonimo di dote personale, di qualità proprie che ciascuno è chiamato a far fruttificare. Questo insegnamento di Gesù ha inciso fortemente anche sul piano storico-sociale, promuovendo nelle popolazioni cristiane una mentalità attiva e intraprendente. Ma attenzione a dare una interpretazione di tipo utilitaristico a questa parabola.

In realtà, il testo parla di "un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni" (Mt 25,14). I talenti sono i doni che Gesù affida loro, i doni che Gesù ci affida.

Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: 

la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; 

la preghiera – il "Padre nostro" – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; 

il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; 

il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; 

il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. 

In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi. 

Certamente c’è una chiave di lettura escatologica: dal greco antico, ἔσχατος, éskhatos «ultimo», letteralmente "scienza delle cose ultime", è la riflessione teologica sul destino definitivo e finale delle persone e del creato (la morte, l’aldilà, la fine dei tempi, l’apocalisse, la venuta di Gesù ecc.).

Per il cristiano, la storia non è un perpetuo ricominciare; la storia conosce una progressione segnata dalle visite di Dio, in tempi, giorni, ore e momenti privilegiati. 

È proprio questo che professiamo nel credo liturgico “Salì al cielo, siede alla destra del Padre, di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”. Il Signore è venuto, viene continuamente, verrà per giudicare il mondo e salvare i fedeli. Dopo l’ascensione, siamo entrati nell’ultimo ora “Figlioli, è giunta l’ultima ora” (1 Giovanni, 2, 18). Il Regno di Cristo è già presente, Lui è già glorificato, Signore del cielo e della terra. Ma prima dell’ascensione Gesù dice a quelli che erano con lui (Atti 2, 6) che non è ancora giunto il momento della ricostituzione gloriosa del regno attesa da Israele, ha inaugurato il tempo dello Spirito e della testimonianza, un tempo segnato dalla prova del male, in cui il male, ancorché sconfitto definitivamente, ha ancora una certa libertà di azione. Questo tempo di prova, che non risparmia nemmeno la Chiesa, è un tempo di attesa e di vigilanza. Fino alla parusìa, “il giorno della visita”, il “giorno di Dio”, il “giorno del Figlio dell’uomo”, il compimento del giorno di Dio annunciato dai profeti; quest’ultima tappa della storia della salvezza sarà consumata con il ritorno glorioso del giudice supremo. In quel giorno, saranno messi in luce la condotta di ciascuno e il segreto dei cuori. 

Questa parabola ci ammonisce circa la provvisorietà dell’esistenza terrena e ci invita a viverla come un pellegrinaggio, tenendo lo sguardo rivolto alla meta, a quel Dio che ci ha creato e, poiché ci ha fatto per sé (cfr S. Agostino, Conf. 1,1), è il nostro destino ultimo e il senso del nostro vivere. Passaggio obbligato per giungere a tale realtà definitiva è la morte, seguita dal giudizio finale. L’apostolo Paolo ricorda che “il giorno del Signore verrà come un ladro di notte” (1 Ts 5,2), cioè senza preavviso. La consapevolezza del ritorno glorioso del Signore Gesù ci sprona a vivere in un atteggiamento di vigilanza, attendendo la sua manifestazione nella costante memoria della sua prima venuta.

In sostanza, come dice Robert Cheaib commentando questo vangelo, non ci interessa volgere lo sguardo a una vita eterna che non inizi qui ed ora. E, a quanto pare, Gesù è dello stesso parere. La parabola dei talenti non parla del giudizio finale, piuttosto, come cercheremo di capire stasera, del nostro pre-giudizio e della paura che abbiamo in questa vita. Il punto centrale non è “Cristo giudice”, ma “Cristo redentore”, che ci dona le grazie necessarie per giungere alla salvezza e ci mette in guardia da noi stessi che, rifiutando questa grazia, ci giudichiamo da soli.

Dio chiama  ogni uomo alla vita e gli consegna dei talenti, affidandogli nel contempo una missione da compiere. 

Nessuno si senta esclusa da questo. 

I “talenti” ci sono, e ci sono per tutti. Non cadiamo nell’errore, sarebbe da stolti, né di pensare che questi doni siano dovuti né di rinunciare ad impiegarli, perché sarebbe un venir meno allo scopo della nostra esistenza. 

Sgombriamo, però, subito il campo da un equivoco. Dio non dà a tutti lo stesso numero di talenti, ma “a ciascuno secondo le proprie capacità”: il numero dei nostri talenti non è un modo di Dio di fare ingiustizia!

Troppe volte paragoniamo la nostra vita a quella degli altri e ci domandiamo perché a quello sì e a noi no. Pensiamo spesso che l’erba del nostro vicino sia sempre più verde, ma in realtà non sappiamo quasi nulla della vita degli altri, di quello che vivono, di quello che soffrono. Giudichiamo dall’esterno e viviamo arrabbiati pensando di essere dei figliastri e noi dei figli. Ci dimentichiamo che Dio dà “secondo le capacità di ciascuno”.

Il punto non è “fare la conta” dei nostri talenti, ma decidere che cosa ne vogliamo fare. Passiamo la vita a osservare ciò che gli altri hanno, ad ammirarli ma anche ad invidiarli, oppure a ragionare con la paura e quasi mai “investiamo” su ciò che siamo e su ciò che abbiamo. La santità non è guadagnare di più, ma avere il coraggio di rischiare ciò che si ha. Se tu rischi ti comporti da figlio, se non rischi tu ragioni da servo che temendo la punizione si paralizza .

È vero che il Signore non dà a tutti le stesse cose e nello stesso modo: ci conosce personalmente e ci affida quello che è giusto per noi; ma in tutti, in tutti c’è qualcosa di uguale, e arriviamo al punto centrale della parabola: a tutti è data la stessa, immensa fiducia. Dio si fida di noi, Dio ha speranza in noi! In noi tutti singolarmente!

Questo Vangelo è la storia di questa “fiducia” accordata dal padrone ai servi: il padrone consegna i suoi beni, tutto quello che possiede, ed è un “capitale” enorme. 

Stiamo attenti a non scivolare in un moralismo che richiede di vedere in tutto questo un problema di “dovere” o di “obbligo” per paura della “punizione”. Una vita con la paura della punizione ci trasforma in devoti inutili, ma la santità consiste nel diventare figli di Dio, non nel semplice stare alle regole. Se per paura dell’inferno faccio una vita da santo, allora non ho capito che il bene andava fatto per amore e non paura.

Commentando questa pagina evangelica, san Gregorio Magno nota che a nessuno il Signore fa mancare il dono della sua carità, dell’amore. Egli scrive: “È perciò necessario, fratelli miei, che poniate ogni cura nella custodia della carità, in ogni azione che dovete compiere” (Omelie sui Vangeli 9,6). E dopo aver precisato che la vera carità consiste nell’amare tanto gli amici quanto i nemici, aggiunge: “se uno manca di questa virtù, perde ogni bene che ha, è privato del talento ricevuto e viene buttato fuori, nelle tenebre” (ibidem).

Non è questa la strada! Qui Gesù ci racconta la strada della fiducia, la strada della “consegna”: il padrone consegna i suoi beni ai suoi servi. Il problema è proprio questo. Questo padrone che è Dio, che ci dà “cose da lavorare”, “cose da impegnare”, “cose da usare”. 

La vita non è la ricerca costante di zone di riposo. Noi, esistenzialmente, stiamo vivendo una degenerazione rispetto all’attività umana, concepiamo la vita come divertimento, desideriamo essere più liberi per dedicarci a quello che ci piace, e, di contro, il lavoro come un impiccio, come un incidente di percorso. Poi, quando qualcuno sta realmente nella condizione della disoccupazione, si rende conto che è esattamente il contrario: l’ozio è una zona di disumanizzazione, mentre il lavoro è molto importante per ognuno di noi. 

Ma al di là del concetto di lavoro, il problema è che oggi noi concepiamo la vita come una noiosa parentesi tra un week end e un altro o tra un lunedì e un altro. Per noi la cosa importante è finire, divertirci, riposarci, passare la vita nell’edonismo, nello svago; mentre ciò che veramente conta nella nostra vita sono i risultati che lasciamo dietro di noi, sono le cose che vediamo, che abbiamo potuto fare. 

Dobbiamo focalizzare che ognuno di noi ha qualche cosa di bello da fare, ed è proprio in quello che si esplicita, ognuno di noi mostra la sua bellezza, la sua importanza. È tanto importante che ognuno di noi si lanci nelle proprie benedizioni, nelle proprie capacità, nelle proprie occasioni e soprattutto nei “beni del padrone” che sono beni, dato che il padrone è Dio, importanti, abbiamo già detto che vi sono compresi beni naturali ma sopratutto beni soprannaturali, doni, sacramenti, Parola di Dio, tante cose che ognuno di noi sa prendere alla propria maniera, come anche tutte le cose della vita ordinaria: è bello vivere! È bello lavorare! È bello usare la propria vita! 

Ma allora, da dove nasce il caso terribile  del terzo servo, quello che non fa proprio niente, che prende e nasconde sotto terra i beni che gli sono stati accordati, il talento che gli era stato dato?

È interessante ascoltare il discorso del servo che si giustifica: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso.  Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra, ecco ciò che è tuo”. Ecco, il servo non si è impossessato dei beni che il Signore gli ha dato e gli dice “Ecco ciò che è tuo”, glielo restituisce. C’è un atto molto importante: impossessarci delle nostre grazie. 

Ognuno di noi ha delle grazie e ne deve prendere possesso! Quelle non ce le impone Dio, Dio non ci impone di sfruttare le occasioni che ci dà, ci dobbiamo entrare noi. 

Da dove parte l’azione “sballata” di questo terzo servo? Dal fatto che pensa male del padrone, ha un pre-giudizio nei confronti del padrone: “So che sei un uomo duro”, e questo lo porta ad avere paura.

Invece, dal racconto leggiamo che non lo è per niente, anzi è un uomo generoso, sarà così generoso con i suoi servi che gli lascerà i suoi beni e il frutto di questi! Però è un uomo che accorda una operazione: chiede di essere corrisposto, ma non è uno che prende quello che non gli spetta, come lo descrive il servo (“Mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). È una visione (sbagliata di Dio), come se Dio fosse esigente. 

Quanta gente ha questa idea che la volontà di Dio è dura… ma quando mai! Ma dove sta scritto? È una menzogna, che ci porta ad avere paura, e la paura non viene da Dio e ci porta a fare, a dire ecc., cose sbagliate.

Ci sono molti passi nella Scrittura dove si afferma che l’uomo che teme Dio è da lodare e deve essere riconoscente per il frutto delle sue mani: esiste un collegamento fra il temere Dio, cioè pensare bene di Lui, avere il senso di Lui, avere il senso della Sua preziosità (questo appunto è il “timore di Dio”), e il frutto delle proprie mani: la volontà di Dio non è una trappola, la volontà di Dio è un dono, la volontà di Dio è un’occasione bellissima che noi abbiamo per poter dare frutto, perché prendiamo possesso della fiducia che Dio ci dà, perché noi non viviamo sotto un dio che ci è nemico, sotto un dio esigente, sotto un dio pretenzioso. Dio è generoso! Dio ci dà cosa fare perché ci dà fiducia, ci accorda opere da compiere perché possiamo sperimentarne la generosità.

Ecco, apriamo il cuore a pensare bene di Dio per pensare bene delle nostre occasioni!

Papa Francesco, commentando la parabola dei talenti da Piazza San Pietro nell’Angelus del 16 novembre 2014, ci ha fatto un invito che oggi vorrei rinnovarvi: sarebbe un bel gesto che ognuno di voi prendesse questo Vangelo a casa, il Vangelo di San Matteo, capitolo 25, versetti dal 14 al 30, leggesse la parabola e meditasse un po’: “I talenti, le ricchezze, tutto quello che Dio mi ha dato di spirituale, di bontà, la Parola di Dio, cosa ne sto facendo? Come faccio che crescano in me e negli altri? O soltanto li custodisco in cassaforte?”.

Non deludiamo Dio! Non lasciamoci ingannare dalla paura, ma ricambiamo fiducia con fiducia! 

La Vergine Maria incarna questo atteggiamento nel modo più bello e più pieno. Ella ha ricevuto e accolto il dono più sublime, Gesù in persona, e a sua volta lo ha offerto all’umanità con cuore generoso. A Lei chiediamo, in questa preghiera, di aiutarci ad essere “servi buoni e fedeli”, per partecipare “alla gioia del nostro Sign